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I sonetti di Ugo Foscolo

Ugo Foscolo

Quando Ugo Foscolo iniziò a scrivere i suoi sonetti, nel 1798, stava per immergersi in una tempesta amorosa, quella con Antonietta Fagnani Arese, donna molto capricciosa che però si mise a disposizione del poeta, traducendogli dal tedesco I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe (1801-2).

Dopo la fine della relazione, Foscolo pubblicò a Pisa la prima edizione delle Poesie di Ugo Foscolo. Esse contenevano un’ode (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo) e otto sonetti. La seconda edizione ampliò il numero delle poesie: alla prima ode se ne aggiunse una seconda (Alla amica risanata, dedicata alla Fagnani Arese) e altri quattro sonetti.

Distaccandosi dalla tradizione poetica italiana settecentesca, tutta incentrata sulla musicalità del testo e su argomenti per lo più mitologici, i tre sonetti Alla sera, A ZacintoIn morte del fratello Giovanni costituirono un’estrema novità per lo sviluppo dell’arte poetica della nostra nazione.

Proveremo ora a darne un sintetico riassunto.

Alla sera.

Forse perché la sera è la metafora della “fatal quiete”, ovvero della morte, essa giunge così gradita al poeta. Egli la invoca, aprendole soavemente le porte del cuore perché la sera lo fa vagare con i pensieri sulle orme che portano la sua mente a pensare al “nulla eterno” (Foscolo è infatti agnostico, materialista, rifiuta l’idea che la vita possa preludere a qualcosa d’altro, divino o umano che sia: l’esistenza è solo un meccanismo vorticoso, una ruota che gira incessantemente, in cui nulla si crea e nulla si distrugge). Mentre riflette su questi temi, fugge, scappa via il “reo tempo” (colpevole di passare troppo in fretta, ma colpevole anche per le grandi delusioni che esso porta con sé: vedasi le fittizie promesse di libertà incarnate da Napoleone), portandosi via anche le “torme” dei fastidi che lo tormentano interiormente. Quando il poeta ammira la pace della sera, si addormenta “lo spirto guerrier ch’entro mi rugge”, la volontà di battagliare sempre e comunque contro tutto e contro tutti.

A Zacinto

La poesia è un omaggio alla terra natale di Foscolo, l’isola greca situata nel mar Jonio che gli ha dato i natali nel 1778. L’opera è un presagio della impossibilità per il poeta di tornare a calpestare le “sacre sponde” dell’isola in cui è nato. Non potendovi più tornare, Zacinto (o Zante) dovrà accontentarsi del canto del poeta esule. Il Destino (il fato) gli ha destinato una sepoltura distante dalla propria famiglia. Le sponde di Zacinto sono sacre perché lì, secondo la tradizione omerica, è nata Venere, la dea greca dell’amore, che con il suo primo sorriso ha reso feconde tutte quelle isole. Tutta la luminosità del cielo e del mare ispirò anche “L’Odissea” di Omero, che cantò le “acque fatali” e l’esilio di dieci anni cui fu costretto, dopo la guerra di Troia, Ulisse nel suo rientro a Itaca. Costui, “bello di fama e di sventura”, è stato più fortunato di Foscolo, dato che è riuscito a baciare la terra della sua  petrosa Itaca. Il ritmo della poesia è molto ampio grazie ai numerosi e sorvegliati enjambements, distribuiti in tutto il testo.

In morte del fratello Giovanni

La poesia riecheggia, dopo Omero, un altro grande autore della poesia antica: il latino Catullo. Ciò dimostra il grande amore di Foscolo verso il passato e la classicità: in essi, nella loro pace senza tempo, egli trova riparo sicuro rispetto alle ansie e alle battaglie del presente che lo logorano. In questo, egli si dimostra molto distante dal Romanticismo che sta iniziando a profilarsi in Germania.

Il sonetto è dedicato da Foscolo al fratello Giovanni, morto suicida per debiti di gioco. Inizia con una apostrofe (un discorso diretto al fratello morto), nella quale Ugo dice che, se non dovrà sempre fuggire di popolo in popolo, andrà a portare il suo tributo di lacrime sulla tomba del fratello. Adesso, la sola madre, “suo dì tardo traendo”, oramai nell’ultima parte della sua vita, parla al figlio morto dell’altro figlio lontano. Foscolo tende a loro le sue palme e pensa con tristezza e nostalgia alla sua patria. Sente infatti “gli avversi numi”, il destino cattivo, e le angosce, che precipitarono Giovanni nel baratro, e prega di poter trovare quiete nello stesso porto del fratello, la morte. Di tante speranze, solo questa gli è rimasta: che le genti straniere restituiscano il suo corpo al petto della madre triste, una volta che sarà morto.

 

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